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Sergey Meytuv

Biografia
RACCONTO BIOGRAFICO SULLE NONNE, O COME DIVENTARE PITTORE Non è facile per un pittore raccontare le proprie opere. È un peccato dover sminuire ciò che c'è di inafferrabile, e quindi di così prezioso, dietro la tangibile facciata di un quadro. È molto più semplice raccontare come si diventa un pittore. In realtà lo si diventa facilmente. Servono due nonne: una buona e una severa, ed per entrambe devi essere al centro dell'universo. Così perlomeno è stato con me quando ero piccolo. La nonna dal lato materno si chiamava Rosa. Rosa era animata solo dall'amore, priva dell'istinto di educatrice, e non ha mai interferito con i miei esperimenti. Un giorno avevo staccato la coda al mio cavallo a dondolo. Nutrirlo dall'apertura così formatasi dietro era diventato molto più interessante che saltellare sul posto. A distanza di una settimana, dopo che aveva inghiottito una parte considerevole dell'argenteria, una moltitudine di vari piccoli oggetti di casa e alcuni dei panini che ricevevo per merenda, il cavallo aveva iniziato a puzzare. Un odore poco augurante si sprigionava dal posteriore. Io non ero semplicemente estasiato, ma convinto che il cavallo stesse prendendo vita. Poi un giorno tutto venne a galla. Mentre mio padre apriva il cavallo con un enorme coltello, io venivo trattenuto da sette "zie volontarie" della nostra casa in condivisione. Le mie grida si saranno sentite fino a Piazza Kudrinskaya. L'unica ad essere stata dalla mia parte era nonna Rosa. Ritenendola indubbiamente una violazione dei diritti inalienabili dell'uomo e senza perdere tempo in chiacchiere, si era messa subito a prepararmi uno strudel alle noci per consolazione. A dirla tutta, le "zie volontarie" erano anch'esse mie nonne, ma di secondo grado, e la casa in condivisione un vecchio appartamento con più stanze nel quale queste nonne felicemente abitavano. Una stanza per ogni sorella, più una sala da pranzo comune. C'era chi viveva in solitudine, chi con il proprio marito. Eppure la parola "solitudine" era completamente fuori luogo, per quanto la famiglia fosse numerosa ed unita. In quella casa ero l'unico bambino, e tutta l'abbondanza di amore e premura la ricevevo personalmente. Ammetto che, con qualche rara eccezione, mi veniva concesso di tutto. La mattina facevo il giro d'ispezione dei miei possedimenti. Le stanze, come le nonne, erano tutte diverse tra di loro. Quella di nonna Dora era piena di libri, libri noiosi, senza illustrazioni. La loro numerosità tuttavia destava il mio interesse: non che avessi mai avuto l'intenzione di leggerli, però sognavo di contarli tutti. Nonna Ida aveva una cicogna che era capace di bere per davvero. Le mettevo davanti un piattino colmo d'acqua e con un dito la aiutavo a fare il primo "sorso". La testolina di feltro si gonfiava poco a poco e l'acqua cominciava a muoversi lungo l'esile collo verso il corpicino. Assorbendo l'acqua, il corpo diventava più pesante della testa e la cicogna smetteva di bere, raddrizzandosi. Poi, dopo alcuni minuti, tornava di nuovo ad avere sete. Così andava avanti a lungo: io osservavo in silenzio il processo e nessuno osava interrompere la mia trance estasiata. La porta di quella stanza era decorata da un vetro opaco e dipinto, che, uscendo, osservavo dall'oscurità del corridoio: raffigurava boschetti di bambù, siepi, aironi. Nonna Sara aveva un marito, e il marito un vecchio mandolino. Ogni giorno, in onore della mia visita, lo strumento veniva tirato giù dalla parete su cui era appeso. Io mi sedevo, estraevo il plettro inserito tra le corde e deliziavo con maestria il fine udito dei miei buoni, pazienti e obbedienti servitori. Dalla sala da pranzo arrivavo nell'oscurata stanza di nonna Zilia. Lei non parlava e non si alzava mai. Di fianco all'enorme letto, così alto che intravvedevo solo una mano carnosa e giallastra, stava un tavolino d'antiquariato con le medicine. Le tende erano sempre chiuse. C'era un odore di qualcosa di complicato, dolciastro, leggermente inquietante. L'unica cosa che dovevo fare lì era silenzio, e mi riusciva bene. Quasi senza respirare, stare in silenzio nella semioscurità della camera mi piaceva molto. C'erano anche altre nonne... Ma la più importante era indubbiamente Rosa. La vita dentro casa si ruotava intorno a lei e da lei era determinata. Un qualche ospite di passaggio, facendo un salto dentro e non trovando Rosa, avrebbe dato un'occhiata di sfuggita all'anonimo gruppetto dei residenti e avrebbe distrattamente pronunciato: "ah, non c'è nessuno, allora io vado". Nessuno nemmeno pensava di prendersela. E molto altro ancora c'era stato. Nonna Rosa, così come tutto il suo amore, era venuta meno quando avevo 10 anni, mentre io ripenso tuttora alle fragranti focaccine con patate e cipolla che mi venivano portate a letto la mattina, come un miracolo dal cielo, accompagnate da calde parole d'affetto. La nonna dal lato di mio padre si chiamava Vera. Con lei era tutt'altra cosa, tutto più severo, senza focaccine, una volta mi ero perfino preso una scopa in faccia. Ma in compenso: misteri ed enigmi! C'erano, tra questi, un qualche cadetto innamorato, raffinate calze di cotone pregiato, preziosi anelli, nascosti in una cassettina portatile di medicine dentro a barattoli di vaselina, vecchi album e lettere, una misteriosa spilla di ametista che portava cattiva sorte, un pugnale da marinaio, poesie di Aleksandr Blok: "Il cielo di Pietrogrado si oscurava di pioggia, per la guerra partiva il treno...", una rara statuetta cinese di pietra bianca, con una mano reggente un cestello di fiori e l'altra senza dita (non per colpa mia, si intende), un piccolo vaso di bronzo con un segreto musicale e un arazzo di Lione fortemente consumato nel corso dei traslochi: il parco di Versailles, due giocose fanciulle con dei retini e due cavalieri nascosti dietro una siepe di lillà con aria di complotto. C'era anche stato il periodo dell'esilio a Tomsk, durante il quale tutto ciò che ovviamente ormai non riesco a ricordare veniva barattato per legna, farina e sapone. E c'era anche un ventaglio, sopravvissuto all'esilio: un oggetto di culto nell'epoca romantica, decorato da Watteau in persona (o almeno così si riteneva). Già a cinque anni mi piaceva osservare come mia nonna, allora ancora giovane, lo agitava elegantemente, con modestia e un'aria un po' da civettuola. Nonna Vera (mio fratello la chiamava anche "nonna Ventaglio") ha vissuto cent'anni, e cinquanta di questi li ho trascorsi a deliziarmi con i suoi racconti, imparandoli parola per parola e difendendo fedelmente la storica verità quando la memoria traeva in inganno la nonna. Quello era un mondo in cui esistevano personalità e figure ora scomparse dalla faccia della terra e che sarebbero inappropriate al giorno d'oggi. Parlavano il russo antico, utilizzavano espressioni e giochi di parole irripetibili e non riuscivano a fare a meno di oggetti così inutili come un Porte-bouquet... In seguito, quando assieme ai miei genitori mi sono ritrovato in un appartamento singolo, ho vissuto un vero shock. Significava la perdita di tutti i miei poderi, il distaccamento da molte persone, una deludente semplificazione della vita quotidiana, la privazione di quel misterioso e variopinto mondo in cui tutto era possibile. Da quel momento in poi la mia vita è stata un tentativo, nei pensieri, racconti, o quadri, di ripristinare quel mondo e portarvi a termine qualcosa di importante. Il tempo continua a scorrere, ma sembra impossibile riportare indietro, ricreare, quell'accogliente, intricato ed intrigante universo, nel quale mi sono ritrovato all'inizio della mia vita. Le persone di quel tempo non ci sono più ed è difficile riscaldare lo spazio per conto proprio. Cambiano gli appartamenti, ma la casa non si trova. Il pittore è un essere fortunato: può "condensare" un'idea, renderla concreta e tangibile. Ogni opera, nel corso della sua realizzazione, rappresenta difatti la "casa" in cui mentalmente risiedo e che riempio di oggetti singolari. Oggetti vecchi, antichi, particolari, certe volte leggermente bizzarri, ma che convivono in piena armonia. Non ci sono né regole, né oppressione. C'è un unico principio, quello della gratitudine, mia a questo straordinario mestiere, e quella di ogni, anche del più insignificante oggetto, verso di me, per l'avergli trovato un giusto posto, dei buoni vicini, e l'avergli attribuito un ruolo rilevante. Ammiro come "vivono" nei quadri queste creature non-viventi, sorrido tra me e me e per un po' mi arrendo alla mia ingenuità, all'inesorabile frenesia della vita, all'infanzia passata. Mi immergo nei ricordi, e i ricordi, come diceva nonna Vera, sono il paradiso dal quale non si può essere banditi. Sergey Meytuv

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